Disponibile ora su Amzon Acquista ora
Quando l’uomo si accorge dell’inumano
SMART CITIESSPIRITUALITÀ E MISSION
Alessandro Ghisalberti
10/7/20253 min leggere


Perché vediamo, comprendiamo… ma spesso restiamo fermi.
Nel mio lavoro quotidiano, che sia nei servizi Caritas, nei percorsi di counselling o nelle esperienze sul territorio, mi capita spesso di assistere a scene che rivelano — a volte in modo sottile, altre volte in maniera brutale — la presenza dell’inumano nella vita di tutti i giorni.
Non parlo necessariamente di grandi eventi drammatici. Parlo di gesti, parole, atteggiamenti che feriscono la dignità delle persone. Di situazioni in cui la disumanizzazione passa in silenzio, quasi fosse normale.
In quei momenti vedo negli occhi delle persone — e a volte nei miei — un misto di stupore, disagio e impotenza. Si capisce che qualcosa non va, lo si sente “a pelle”, eppure spesso la reazione tarda ad arrivare. Ci si ferma. Si osserva. Si rimane sospesi.
È proprio da questa esperienza, radicata nell’incontro quotidiano con l’umanità ferita, che nasce la riflessione che voglio condividere: perché accade che, davanti all’inumano, vediamo, comprendiamo… ma non agiamo subito?
1. Perché esistono comportamenti umani e disumani
L’essere umano porta in sé entrambe le possibilità. Da un lato, la straordinaria capacità di empatia, di costruzione di legami, di cura e di creatività. Dall’altro, la capacità di escludere, ferire, chiudersi, disumanizzare l’altro.
Le neuroscienze sociali ci dicono che il nostro cervello è predisposto alla cooperazione: si attivano aree empatiche quando riconosciamo nell’altro un “simile”. Ma quando l’altro viene percepito come diverso, minaccioso o lontano, quei circuiti possono spegnersi. Cultura, educazione, contesto sociale e storico giocano un ruolo fondamentale nel rafforzare l’una o l’altra direzione.
L’umano e l’inumano non sono due mondi separati: convivono dentro ciascuno di noi. E ogni giorno siamo chiamati a scegliere, spesso in modo silenzioso, da quale parte nutrire il nostro sguardo e le nostre azioni.
2. Perché facciamo fatica a reagire subito
Quando assistiamo a un comportamento disumano, qualcosa dentro di noi si blocca. Non è mancanza di sensibilità, ma un shock cognitivo: la mente ha bisogno di tempo per interpretare ciò che accade. È come se la realtà si dilatasse per un attimo, lasciandoci sospesi tra il riconoscere e l’agire.
A questo si aggiunge l’effetto spettatore. Più persone sono presenti, meno ciascuno sente la responsabilità personale di intervenire. È un meccanismo psicologico profondo: ci diciamo “qualcun altro lo farà”. E così, paradossalmente, più siamo, più facilmente nessuno agisce.
Questo vale nei grandi eventi pubblici, ma anche nelle situazioni ordinarie che incontro nel mio lavoro: una parola discriminatoria detta con leggerezza, un gesto che umilia, un’ingiustizia subita in silenzio. Dentro di noi nasce una tensione: una parte spinge ad agire, un’altra si ritrae per paura, prudenza o semplice incertezza.
Diventare consapevoli di questo meccanismo è già un primo passo per spezzarlo. Perché il silenzio, spesso, è il terreno su cui l’inumano mette radici.
3. Perché spesso lasciamo fare e osserviamo senza agire
Non sempre si tratta di indifferenza. A volte è paura: di esporsi, di essere giudicati, di restare soli. Altre volte è la sensazione di impotenza, quella voce interiore che sussurra “tanto non serve a nulla”. Oppure è qualcosa di ancora più sottile: la normalizzazione. Quando certi atteggiamenti si ripetono abbastanza a lungo, diventano paesaggio. Non li notiamo più.
Nel servizio, questa dinamica è molto visibile: piccole mancanze di rispetto, esclusioni quotidiane, disattenzioni che col tempo diventano “abitudine”. Eppure sono proprio queste crepe silenziose a minare la dignità. Reagire richiede energia, coraggio, lucidità. Restare in disparte è più semplice, almeno nell’immediato. Ma a lungo andare rischiamo di diventare spettatori cronici, anestetizzati, incapaci di riconoscere i confini tra ciò che è umano e ciò che non lo è più
4. Cosa può fare l’uomo davanti all’inumano
Il primo passo è vedere e nominare. Non voltarsi. Non minimizzare. Dare un nome a ciò che accade significa interrompere il flusso dell’abitudine.
Il secondo è non delegare. Anche un gesto semplice — uno sguardo che non si abbassa, una parola detta con chiarezza, un “no” pronunciato con rispetto ma fermezza — può cambiare l’atmosfera e riaprire uno spazio umano.
Nel lavoro educativo e di accompagnamento questo significa non lasciare passare ciò che ferisce, ma saper intervenire con lucidità, senza aggressività, cercando di ricucire laddove possibile.
A livello collettivo, è fondamentale coltivare una cultura della responsabilità condivisa: educare a riconoscere, reagire, prendersi cura.
5. Umanizzare è una scelta quotidiana
Non esiste una soglia definitiva che ci metta al riparo dal disumano. Ogni giorno, in ogni contesto, siamo chiamati a scegliere da che parte stare. Umanizzare non è un concetto astratto: è un gesto concreto, spesso silenzioso. È decidere di non voltarsi, di non adattarsi, di restare presenti.
Scegliere di vedere, nominare e agire è il modo con cui l’umano resiste all’inumano. Non servono grandi gesti eroici: basta la fedeltà quotidiana a quella parte di noi che riconosce nell’altro un volto, una storia, una dignità.
Il prossimo passo è tuo
La prossima volta che ti troverai davanti a un gesto disumano — piccolo o grande che si, fermati, fai un respiro profondo e chiediti: “Qual è il gesto, anche minimo, che può restituire umanità a questa situazione?”
Può essere una parola detta con calma, uno sguardo che sostiene, un semplice “no” che interrompe. Non serve essere eroi: serve esserci.
Ogni gesto conta. È così che, nel quotidiano, si costruisce una cultura dell’umano che resiste, passo dopo passo, al silenzio e all’indifferenza.