Quando l’altro piange: il dono fragile della verità

Il valore del pianto nella relazione d’aiuto, tra Vangelo, ascolto profondo e una scena indimenticabile de La vita è bella. Un invito a restare accanto, con rispetto e presenza.

COUNSELLING PASTORALE

Alessandro Ghisalberti

4/6/20253 min leggere

Nel mio lavoro di counsellor e nella vita, mi è capitato spesso di trovarmi di fronte a persone che piangevano.

Alcune volte piangevano mentre raccontavano storie difficili, perdite, traumi. Altre volte, erano lacrime che sgorgavano mentre condividevano qualcosa di bello, ma profondo, commovente, sacro.

E poi ci sono momenti in cui piangevo io, mentre ascoltavo. Perché ciò che ricevevo era troppo grande per restare chiuso solo dentro il cuore.

Nel counselling pastorale, il pianto non è un imprevisto da gestire, ma un luogo da abitare. È come se, in quel momento, si aprisse una soglia tra due mondi: il visibile e l’invisibile, l’apparenza e l’essenza, la superficie e la profondità.

Il pianto ha questa forza: scava, disarma, purifica, connette. E quando avviene in presenza di un altro, assume una dimensione relazionale potentissima.

Il pianto come linguaggio dell’anima

Piangere davanti a qualcuno è un atto di fiducia estrema.

È come dire: “Ecco, questa è la mia parte più vulnerabile. Mi fido che tu non la calpesterai.”

Chi accompagna, chi ascolta, ha il dovere di restare in silenzio, presente, con il cuore aperto.

Non per riempire il vuoto con parole rassicuranti o risposte frettolose, ma per custodire quello spazio con delicatezza.

C’è una verità che il pianto porta in superficie: qualcosa che le parole da sole non riescono a esprimere.

Lacrime di dolore, di liberazione, di gioia, di nostalgia… ogni lacrima ha la sua voce, e spesso ci dice ciò che non siamo ancora riusciti ad ascoltare davvero.

Per questo, davanti al pianto, il counsellor non analizza, non corregge, non cerca un senso immediato: semplicemente, sta.

E in quel “restare” silenzioso e rispettoso, accade qualcosa di profondo: l’altro sente di essere accolto. Senza essere cambiato, né salvato. Solo accolto.

E questo, a volte, è già guarigione.

Ci sono immagini che, più di molte parole, riescono a mostrare questa verità. Una di queste è la scena finale del film La vita è bella, di Roberto Benigni.

Il bambino, sopravvissuto all’orrore del campo di concentramento, scopre che il “gioco” inventato da suo padre per proteggerlo era in realtà la più struggente dichiarazione d’amore.

Lo spettatore piange non solo per la morte di Guido, ma per la forza del legame, per la delicatezza con cui il dolore è stato trasformato in dono.

Quel pianto è insieme dolore e gratitudine, perdita e rivelazione.

E come in una buona relazione d’aiuto, anche lì il cuore viene toccato in profondità, e qualcosa cambia.

Gesù e il pianto: un Dio che si commuove

Nel Vangelo di Giovanni (11,35), troviamo il versetto più breve e più denso di tutto il Nuovo Testamento:

“Gesù pianse.”

È il momento in cui Gesù arriva al sepolcro dell’amico Lazzaro, morto da quattro giorni. Maria piange, i Giudei piangono, e anche lui si commuove profondamente e scoppia in lacrime.

Gesù, il Figlio di Dio, piange. Non perché non sapesse che avrebbe risuscitato Lazzaro, ma perché si lascia toccare dal dolore umano. Perché sente la sofferenza come sua. Perché ama.

Questo ci dice che il pianto non è un segno di debolezza, ma di amore. E che Dio stesso si fa vulnerabile davanti al nostro dolore.

Nel counselling pastorale, questa è una lezione immensa: non siamo lì per “aggiustare” le persone, ma per amarle nel loro attraversamento.

Accogliere il pianto con rispetto

Chi piange davanti a noi, ci sta donando la parte più vera di sé. Sta abbassando le difese, sta dicendo: “Eccomi, così come sono.”

Il nostro compito è custodire quel momento come fosse una preghiera. Restare lì, senza fretta, senza risposte, con la sola presenza che sostiene.

In quei momenti, tutto il nostro corpo è chiamato ad ascoltare: lo sguardo, il respiro, le mani, il silenzio stesso.

Ogni parola in più rischia di essere una distrazione, un rumore. Ogni parola in meno può diventare un gesto di profonda cura.

E anche se può sembrare paradossale, è proprio in quei momenti che il counsellor viene messo a nudo.

Perché il pianto dell’altro, se non lo respingiamo, entra in noi. Ci scuote, ci apre, ci fa sentire parte di qualcosa che ci supera.

Diventa un incontro autentico, trasformante, spirituale.

Uno spazio sacro di comunione

Nel counselling pastorale, ogni incontro è uno spazio sacro.

E il pianto è una delle sue liturgie più misteriose.

Non possiamo “guidarlo” né “gestirlo”. Possiamo solo onorarlo, come si onora una preghiera che sale da un cuore ferito o grato.

Non c’è niente di più umano del pianto, e nulla di più divino della compassione.

Nel pianto condiviso, si spezza una solitudine antica.

E chi piange, se accolto, forse non smette subito di soffrire… ma smette di sentirsi solo.

Per concludere

Nel mio percorso come counsellor pastorale, ho imparato che il pianto è un dono fragile. Non va spiegato, analizzato, usato. Va accolto.

Come fece Gesù con Maria e Marta: restando. Piangendo. Amando.

Ecco, forse il primo vero gesto di aiuto è proprio questo: restare con chi piange, senza timore, senza difese.

Perché là dove si piange, spesso, si sta nascendo di nuovo.

E ogni lacrima ascoltata con rispetto diventa seme di qualcosa che ancora non vediamo… ma che il cuore riconosce come vero.